Il dipendente che è stato arrestato in flagranza e conseguentemente rinviato a giudizio in sede penale dal GIP per illecita detenzione a evidente fine di spaccio di una elevata quantità di sostanze stupefacenti, peraltro acquistate continuativamente e con cadenza regolare, può essere licenziato, in quanto i fatti-reato di cui lo stesso è imputato costituiscono condotte extra lavorative disciplinarmente rilevanti.

Il datore di lavoro è legittimato a formulare una contestazione per relationem, ovvero mediante il richiamo agli atti del processo penale del quale il lavoratore è già stato portato a conoscenza, posto che tale rinvio è idoneo a garantire il rispetto del contraddittorio e del principio di correttezza.

Così ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 4804, depositata il 19 febbraio 2019, che ha, per di più, accertato che la “condotta di “detenzione e spaccio di elevata quantità di sostanze stupefacenti, con cadenza regolare (circa una volta ogni tre/quattro mesi) dal 2006 (quantitativi pari, di volta in volta, a 200/300 gr di hashish e, nel giugno 2010, anche di 20 gr di marijuana)” è “sussumibile, in astratto, nell’ambito della nozione legale di giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c., avendo un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto di lavoro”.

Il licenziamento era stato dichiarato legittimo, con reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente e pagamento in favore di quest’ultimo di un’indennità risarcitoria ai sensi dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (L. n° 300 del 1970), sia in primo grado che in sede d’appello.

Secondo la Corte d’Appello di Venezia, il datore di lavoro avrebbe contestato unicamente il dato processuale del rinvio a giudizio in sede penale, come appreso da pubblicazioni giornalistiche, senza effettuare alcuna indagine interna e senza enunciare profili, soggettivi ed oggettivi, tali da giustificare la massima sanzione espulsiva.

Il provvedimento della Corte di Cassazione non condivide tale assunto, rilevando che il datore di lavoro non ha semplicemente contestato il fatto storico della pendenza del procedimento penale: ha contestato i fatti materiali che di quel procedimento costituiscono l’oggetto, rappresentati da detenzione e spaccio di elevata quantità di sostanze stupefacenti.

In presenza di tale condotta, il datore di lavoro è legittimano a contestarla e può in seguito applicare anche una sanzione espulsiva, in quanto “trattasi di condotta che oltre ad avere rilievo penale, è contraria alle norme dell’etica e del vivere civili comuni e che, dunque, ha un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto di lavoro”.

La problematica dell’idoneità di condotte illecite extra lavorative a costituire giusta causa di licenziamento è stata reiteratamente affrontata dalla Suprema Corte, che ha ribadito, anche di recente, che anche una condotta illecita estranea all’esercizio delle mansioni affidate al lavoratore subordinato può avere un rilievo disciplinare. Il dipendente è infatti assoggettato non solo all’obbligo di rendere la prestazione lavorativa richiesta, bensì anche all’obbligazione accessoria di tenere un comportamento extra lavorativo che sia tale da non ledere né gli interessi morali e patrimoniali dal datore di lavoro, né la fiducia che, in diversa misura e in diversa forma, lega le parti del rapporto di durata (Cfr. Cassazione Civile, Sez. Lavoro, sentenza 19 gennaio 2015, n° 776).

È dunque pacifico che il concetto di giusta causa non si limiti all’inadempimento tanto grave da giustificare la risoluzione del rapporto di lavoro e si estenda anche a condotte extra lavorative che, seppur formalmente estranee alla prestazione oggetto del contratto, possono nondimeno essere gravi, tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario fra le parti.

Con riferimento in particolare all’addebito che qui rileva, la stessa Corte, anche in questa sede, ha ribadito che la detenzione in ambito extra lavorativo e ad uso non personale di un significativo quantitativo di sostanze stupefacenti a fine di spaccio è idonea ad integrare la giusta causa di licenziamento, e tale da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da compromettere il rapporto fiduciario. La valutazione, in concreto, deve essere compiuta dal giudice di merito.

Infatti, la Corte non conclude definitivamente la vicenda e rinvia la controversia in sede di appello, dove i giudici dovranno riesaminarla applicando i principi sopra descritti. Al contempo, dovranno valutare se e in qual modo la condotta extra lavorativa abbia leso il vincolo fiduciario tra le parti.

Non è pertanto ancora scontato l’esito definitivo della lite; tuttavia, la portata dei principi affermati dall’ordinanza resta molto rilevante, in quanto riconosce l’idoneità della condotta contestata (detenzione e spaccio di elevata quantità di sostanze stupefacenti) a costituire giusta causa di licenziamento ai sensi dell’art. 2119 c.c., in quanto condotta ritenuta particolarmente grave, a prescindere dalla posizione lavorativa in azienda del dipendente e da quanto eventualmente disposto dalla disciplina collettiva.

(Altalex, 22 marzo 2019. Nota di Federica Sarti)